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Gabriel Garcia Marquez

José Arcadio Buendìa: Se non temi Dio, temi i metalli.

replica da Cent'anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez (1967)Segnala un problemaCitazioni simili
Aggiunto di Dan Costinaş
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Valeriu Butulescu

La vera ricchezza è dentro di noi. Se la tua ricchezza è autentica non temi i ladri.

aforisma di Valeriu Butulescu da Frammenti di pensieri, traduzione di Giocondina ToigoSegnala un problemaCitazioni simili
Aggiunto di Simona Enache
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Aleksandr Solzenicyn

Alla fine della mia vita posso sperare che il materiale storico i temi storici, i quadri di vita e i personaggi da me raccolti e presentati, riguardanti gli anni durissimi e torbidi vissuti dal nostro Paese, entreranno nella coscienza e nella memoria dei miei connazionali... La nostra amara esperienza nazionale ci aiuterà nella possibile nuova ripresa delle nostre mutevoli fortune, ci metterà in guardia e ci terrà lontani da rovinose rotture.

Aleksandr Solzenicyn in Il sole 24 ore (4 agosto 2008)Segnala un problemaCitazioni simili
Aggiunto di Simona Enache
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Jose Saramago

Sono un comunista ormonale.

citazione di Jose SaramagoSegnala un problemaCitazioni simili
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Gabriel Garcia Marquez

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.

Gabriel Garcia Marquez in Cent'anni di solitudine (1967)Segnala un problemaCitazioni simili
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José Luis Sampedro

Spendiamo milioni e milioni per cercare acqua su Marte e non facciamo niente per conservarla qui e per cercarne di più per quelli che hanno sete.

José Luis Sampedro in La senda del drago, Occidente (2006)Segnala un problemaCitazioni simili
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Grido negro

Sono carbone!
E tu mi strappi brutalmente la terra
e mi fai tua miniera, padrone.

Sono carbone
e tu mi accendi, padrone
perchè ti serva eternamente come forza
motrice,
ma eternamente no, padrone.

Sono carbone
e devo ardere, si
e bruciar tutto con la forza della mia
combustione.

Sono carbone
devo ardere nello sfruttamento
ardere vivo come catrame, mio fratello
fino a non esserti più miniera, padrone.

Io sono carbone
devo ardere
bruciar tutto il fuoco della mia combustione.

Sì!
Io sarò il tuo carbone, padrone!

poesia di Jose CraveirinhaSegnala un problemaCitazioni simili
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Friedrich Nietzsche

Per la ventesima volta ho ieri assistito al capolavoro di Bizet e ancora l'ho udito con la stessa gentile reverenza. Mi sorprende di poter così vincere la mia impazienza. Ma guardare come un'opera siffatta integri la natura di un uomo. Essa è malvagia, perversa, raffinata, fantastica, eppure avanza con passo leggero e composto; la sua raffinatezza non è quella di un individuo, bensì di una razza. Si sono mai uditi sulla scena accenti più tragici, più dolorosi? E come sono ottenuti? Senza smorfie, senza contraffazioni di alcun genere, in piena libertà dalle bugie del "grande stile". Io mi sento diventar migliore quando questo Bizet mi parla. Il mio udito si sprofonda in quella musica; ne percepisco le origini; mi par di assistere alla sua nascita e tremo davanti ai pericoli che ci accompagnano a qualunque audacia; mi trovo incantato dai felici ritrovamenti che Bizet stesso ignora. Sopra quest'opera la fatalità sta sospesa; la felicità di essa è corta, fulminea, e non conosce dilazioni. Io invidio a Bizet il coraggio di questa sua sensibilità eccezionale, che prima di adesso non aveva trovato mezzo per esprimersi nella musica colta d'Europa; il coraggio di questa sensibilità meridionale, brunita, arsa dal sole... Ah finalmente l'amore, l'amore ricondotto indietro verso la natura!... L'amore come destino, come un destino cinico, innocente, crudele, l'amore esatto nella sua forma natura. Io non conosco altro esempio dove la tragica ironia che costituisce il nocciolo dell'amore sia stata espressa con tale severità, con formula così terribile come nell'ultimo grido di José: "Oui, c'est moi qui l'a tuée, Carmen, ma Carmen adorée....".

Friedrich Nietzsche in Il caso Wagner, l problema di un musicista (1888)Segnala un problemaCitazioni simili
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Psyche

O Psyche, tenue più del tenue fumo
ch’esce alla casa, che se più non esce,
la gente dice che la casa è vuota;
più lieve della lieve ombra che il fumo
disegna in terra nel vanire in cielo:
sei prigioniera nella bella casa
d’argilla, o Psyche, e vi sfaccendi dentro,
pur lieve sì che non se n’ode un suono;
ma pur vi sei, nella ben fatta casa,
ché se n’alza il celeste alito al cielo.
E vi sfaccendi dentro e vi sospiri
sempre soletta, ché non hai compagne
altre che voci di cui tu sei l’eco;
ignude voci che con un sussulto
sorgere ammiri su da te, d’un tratto;
voci segrete a cui tu servi, o Psyche.
Intorno alla tua casa, o prigioniera,
pasce le greggi un Essere selvaggio,
bicorne, irsuto; e sui due piè di capro
sempre impennato, come a mezzo un salto.

E tu ne temi, ch’egli là minaccia
impazïente, e sempre ulula e corre;
e spesso guazza nel profondo fiume,
come la pioggia, e spesso crolla il bosco,
al par del vento; e non è mai l’istante
che tu non l’oda o non lo veda, o Psyche,
Pan multiforme. Eppur talvolta ei soffia
dolce così nelle palustri canne,
che tu l’ascolti, o Psyche, con un pianto
sì, ma che è dolce, perché fu già pianto
e perse il tristo nel passar dagli occhi
la prima volta. E tu ripensi a quando
vergine fosti ad un’ignota belva
data per moglie, crudel mostro ignoto.
E sempre al buio tu con lui giacesti
rabbrividendo docile, ed alfine,
vigile nel suo sonno alto di fiera,
accesa la tua piccola lucerna,
guardasti; e quella belva era l’Amore.
E lo sapesti solo allor che sparve,
l’Amore alato. E ne sospiri e l’ami.
E nella casa di ben fatta argilla,
dove sei schiava delle voci ignude,
sempre l’aspetti, che ritorni, e dorma
con te. Tu piangi, quando Pan, la notte,
fa dolcemente sufolar le canne;
piangi d’amore, o solitaria Psyche,
nella tua casa, dove più non tieni
posto, che l’ombra, e non fai più rumore,
che l’alito; e le voci odi che fanno
all’improvviso a te cader dal ciglio
la stilla che non ti volea cadere.
Però che sono e sùbite e severe
le più; ma più di tutte una che sempre
contende e grida, ad ogni tuo sospiro
verso l’alata libertà: "Non devi!"
Quella non t’ama, credi tu; ma un’altra
è, sì, che t’ama, e ti favella a parte
e ti consola, e teco piange, e parla
così sommessa che tu credi a volte
che sia meschina prigioniera anch’ella.

E tu devi, d’un mucchio alto di semi,
far tanti mucchi, e sceverare i grani
d’orzo, i chicchi di miglio, le rotonde
veccie, i bislunghi pippoli di rena.
E come fine polvere di ferro
sparsa per tutto il mucchio è la semenza
dei papaveri. E tu, Psyche, tu gemi
trepida, inerte; e poi con le tue dita
d’aria ti provi, scegli a lungo i semi
del papavero immemore, e in un giorno
tanti ne cogli, quanti appena udresti
cantare nella secca urna d’un fiore.
E piangi, ed ecco vengono le figlie
dell’alma Terra, frugole e succinte,
dalla pineta dove a Pan selvaggio
frangean tra gli aghi dei pinastri il suolo.
Non so chi disse alle operaie nere
di Pan la cosa. Ma si fa d’un tratto
un brulichìo per l’odorata selva;
e sgorgano esse a frotte dai minuti
lor collicelli, mentre Pan nell’ombra
s’addorme al canto delle sue cicale.
E salgono alla casa, onda su onda,
fila incessante di formiche, ed opre
vengono a te; ma prima i grani d’orzo,
pesi, e i bislunghi pippoli di vena
portano, due di loro uno di quelli;
fanno le veccie di tra il biondo miglio,
poi fanno il miglio minimo, poi vanno.
E resta a te la polvere di semi,
di cui ciascuno dal suo nulla esprima
un lungo stelo e il molle fior del sonno.

E il molle sonno tu lo chiami, o Psyche,
dacché di quelle voci una, la voce
che non t’ama e ti sgrida aspra, ti disse:
"Vil fanticella, prendi questa brocca
e va per acqua al nero fonte; al fonte
di cui sgorga l’oscura onda, sotterra,
al fiume morto. Esci per poco, e torna."
E tuo mal grado, o schiavolina, andasti
con la tua brocca di cristallo al fonte;
e là vedesti, su la grotta, il drago,
l’insonne drago, sempre aperti gli occhi;
e tu chiudesti, o Psyche, i tuoi, da lungi
rabbrividendo; ed ecco, non veduto,
uno ti prese l’anfora di mano,
che piena in mano dopo un po’ ti rese,
e dileguò. Tu lentamente a casa
tornavi smorta, e con un gran sospiro,
apristi gli occhi, e nel cristallo puro
tu guardasti l’oscura acqua di morte,
e vi vedesti il vortice del nulla,
e ne tremasti. E Pan allora un dolce
canto soffiò nelle palustri canne,
che tu piangesti a quel pensier di morte
come piangevi per desìo d’amore:
lo stesso pianto, così dolce, o Psyche!
Ma pur ne tremi, o Psyche, ancora, e mesta
invochi il sonno, perché a te nasconda
quell’altro sonno, che non vuoi, più grande!
Ma delle voci di cui tu sei schiava,
quella che t’ama e ti consola a parte,
ecco che ti favella e ti consola:
"Povera Psyche, io so dov’è l’Amore.
Oh! l’Amore t’aspetta oltre la morte.
Di là, t’aspetta. Se tu passi il nero
fiume sotterra, troverai l’Amore.
Tremi? C’è un vecchio, vecchio come il tempo,
che tutti imbarca, e non fa male a Psyche!
E c’è un cane, oltre il fiume, che divora
ciò ch’è di troppo, e non fa male a Psyche!
Pallida Psyche, prendi tra le labbra
che sembrano due petali appassiti
di morta rosa, un obolo, e leggiero
tienlo, così, che te lo prenda il vecchio,
né tu lo senta; e chiudi gli occhi, e dormi.
E prendi una focaccia, anche, col miele
e col mite papavero, e leggiera
tienla, così, che te la prenda il cane,
né tu lo senta; e chiudi gli occhi, e dormi.
Appena desta, rivedrai l’Amore."

Tu la focaccia prendi su, col miele,
tu chiudi nelle labbra scolorite
l’obolo; e non so quale alito lieve
ti porta via. Per dove passi, un’ombra
passa, non più che d’ali di farfalla.
Ma tu non dormi; e lievemente il vecchio
ti prende il piccolo obolo di bocca;
ma tu lo senti, e senti anche la rauca
lena del vecchio rematore, come
se alcuno seghi il duro legno, e come
se alcuno picchi su la putre terra;
anche senti un latrato, solitario;
e tremi tanto, che di man ti sfugge
ah! la focaccia, e fa un tonfo nell’acqua
morta del fiume. Ed anche tu vi cadi,
cadi nel queto vortice del nulla.

Ma Pan il gregge pasce là su l’orlo
del morto fiume. Non udivi il suono,
là, della vita? Tremuli belati
e cupi mugli, il gorgheggiar d’uccelli
tra foglie verdi, e sotto gravi mandre
lo scroscio vasto delle foglie secche.
E ti cullava nella vecchia barca
un canto lungo, che da te più sempre
s’allontanava sino a dileguare
nella dimenticata fanciullezza.
Pan! era Pan! Egli ti porge un braccio
ispido, e su ti leva intirizzita,
gelida, o Psyche; immemore; e ti corca
nuda così, lieve così, nel vello
del suo gran petto, e in sé ti cela a tutti.
Quali alte grida là dal mondo! Quali
tristi lamenti intorno alla tua casa,
d’argilla, o Psyche, donde più non esce
il tenue fumo, alla tua casa vuota
di cui sparve il celeste alito in cielo.
Ti cercano le genti, o fuggitiva.
O Psyche! o Psyche! dove sei? Ti cerca
nel morto fiume il vecchio che tragitta
tutti di là. Ti cerca, acre fiutando,
dall’altra riva il cane che divora
ciò ch’è di troppo. Tutti, o Psyche, invano!
O Psyche! o Psyche! dove sei? Ma forse
nelle cannucce. Ma chi sa? Tra il gregge.
O nel vento che passa o nella selva
che cresce. O sei nel bozzolo d’un verme
forse racchiusa, o forse ardi nel sole.

Ché Pan l’eterno t’ha ripresa, o Psyche.

poesia di Giovanni Pascoli da Poemi conviviali (1904)Segnala un problemaCitazioni simili
Aggiunto di Simona Enache
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